Ritratti neoclassici (1946)

Ritratti neoclassici, «Il Mondo» n. 35, Firenze, 7 settembre 1946, poi in W. Binni, Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento cit.

Ritratti neoclassici

Piú complessa di molti suoi ritratti, Isabella Teotochi Albrizzi, la saggia, la divina, anima le sue pagine nitide e preziose con la propria sottintesa presenza, con le direzioni diverse e concordi di uno sperimentare agiato e brioso, a cui le pagine del frammento di un romanzo autobiografico del Foscolo aggiungono le probabili indicazioni di una saggezza sensuale, di una spregiudicatezza elegante (gli ammaestramenti amorosi della rousseauiana madame de Warens!), che approfondiscono il convenzionale e misurato milieu delle epistole pindemontiane o degli elogi bertoliani. Perciò il nuovo editore[1], ha voluto premettere alla famosa operetta un suo ritratto della Teotochi, compito ed informato, in cui il giudizio contemporaneo provocato dalla stessa Isabella nella sua moda neoclassica («Una divinità imperturbabile d’un delubro canoviano, ove i devoti vanno e vengono...») viene mosso alla maggiore complessità della storia, in un variare di indici, di direzioni dal greco-veneziano della adolescenza, alle vicinanze tarde della Staël o dello Scott. Certo la esperienza della dama di Pindemonte e Foscolo è cosí ricca di persone, di paesaggi, di ambienti letterari, di poetiche dall’ultima Arcadia al romanticismo maturo (Isabella visse dal 1760 al 1836 assommando all’incirca le età del Bertola e del Leopardi), ma la sua acme è neoclassica e, se Byron compare nella descrizione piú prolissa e senile, la sua novità romantica è diluita aneddoticamente, mentre il margine romantico-neoclassico di Alfieri è perfettamente rilevato in una intuizione che esaurisce la capacità migliore di Isabella, il suo gusto neoclassico in cui tutti i fermenti preromantici si erano sviluppati senza contrasto: «Si direbbe quasi che in quel volto l’immagine respiri d’una divinità corrucciata... Come soffio di vento, che nelle gole d’alte ed aggruppate montagne diventa terribile, ogni passione diventa tempesta nel suo cuore». Cognizione della sofferenza alfieriana ed intuizione psicologica dell’urto alfieriano contro un secolo di cui pure Isabella gustò tutto il fascino di civiltà socievole: «Ma questo secolo crudele che si intitola umano, io credo per sola vaghezza d’antitesi, lo rendeva atrabiliare, e furioso, come un uomo condannato a vivere tra le serpi e le tigri». E non si compone in un modulo neoclassico, in una stringata sequenza di definizioni (che arieggiano il famoso sonetto foscoliano), quel ritratto del Foscolo in cui, accanto a particolari secondari e casuali (secondo il gusto del ritratto fisico-morale che si ritrova in Giordani o in Colletta), l’intelligenza di Isabella sa approfondirne intuizioni piú sicure al calore del fuoco sentimentale che intenerisce, con le sue tinte delicate di ultima arcadia rousseauiana, il nitore di una forma che si ama come perfezione e come superiore possesso vitale?

«Pietoso, generoso, riconoscente, pare un rozzo selvaggio a’ filosofi de’ nostri dí. Libertà, indipendenza sono gli idoli dell’anima sua. Si strapperebbe il cuore dal petto, se liberissimi non gli paressero i moti tutti del suo cuore».

Graziosi suggerimenti femminili di conversazione, che risentono delle relazioni di questa, piú che amatrice, amica («Ti chiede talvolta un’ora per isvelarti un suo interno affanno, deve confidare al tuo cuore il secreto del suo, vuol consiglio; l’ora è accordata, ed ei se ne torna col suo, e col tuo secreto nel cuore»), che portano l’aria di un amabile pettegolezzo di un mondo dove superiore misura è la grazia mossa (come diceva il suo teorico autorizzato, il Bertola) dalla furtiva eleganza e dal furtivo effetto; arguti spunti di ironia subito addolcita in galanteria e in sentimentalismo («Cerca le donne senza amarne alcuna, e gli paiono piú amabili quelle che mostrano per lui la maggiore indifferenza: allora, Proteo novello, nulla trascura per rendersele appassionate, vestendo ogni forma e talento, che può piú loro piacere. Il suo primo ed unico oggetto è di sedurre le donne, o almeno di occuparle in qualche maniera di se stesso: ed in qualche maniera ci riesce; tel provi l’essermi io stessa occupata di scrivere il suo Ritratto»; accenni di critica formalistica e sentimentale: tutto si risolve in una gustosissima ricerca di compiutezza e di evidenza senza tuttavia l’ansia di gara tacitiana che può ridicolizzare, mettiamo, la prosa storica del neoclassico Papi.

La presenza nell’opera della Teotochi del saggio Opere di scultura e di plastica di A. Canova può ben indicare questo gravitare dell’attenzione della scrittrice verso una poetica, fra quelle che la sua educata curiosità ebbe davanti da quella pariniana a quella manzoniana e byroniana. E fra i ritratti uno dei piú interessanti, per un certo confluire di personali intenzioni e di adesione ad un gusto, è quello del Cavalier Canova, il «novello Fidia» di quegli anni fecondi.

Il tipo del bello morale si traduce in clausole perfette e in un descrittivismo sentimentale che la prosa precedente piú pittoresca e piú abbandonata, piú sciatta anche nelle sue mosse miniaturistiche, ignorava.

Anche a leggere la Vita di Vittoria Colonna, aggiunta dal nuovo editore ai Ritratti, il gusto di una passionalità contenuta in misure di formale castità risulta chiaramente di stampo neoclassico vicino al prevalere della biografia romantica abbondante e disordinata: per quanto anche in questa, da noi, la presenza di chiari esempi neoclassici abbia sempre mantenuto una certa presa efficace.

D’altra parte, quando si pensi ad esempio al ritratto di Gioacchino Murat del Colletta, queste pagine neoclassiche mostrano ampiamente il loro contatto con un mondo letterario piú spregiudicato e vivace, con un amore insopprimibile di grazia sfumata, e il loro controllo si esercita su di una ricchezza quasi di diario non sentenzioso ed epigrafico, non preventivamente schematizzato. Il ritratto di Isabella non è un raccourci dell’elogio accademico né un semplice giuoco di mimesi pittorica, appunto perché la sua fermezza chiara e formale cresce su di una esperienza di persone cui curiosità ed affetto legano la scrittrice come a pagine vive di un suo diario. E non accenniamo solo alle pagine piú segrete in cui l’eco dei suoi amori intenerisce in un’aria quasi di compiaciuta maternità le sottolineature dei caratteri piú sensibili degli amati o in cui, nel dipingere il tollerantissimo marito, ne tesse un trepido elogio ricco di indefinite direzioni sentimentali («Pare che la natura scelto lo abbia per effettuare una sua particolare esperienza; cioè se co’ gradi del male quelli della sofferenza possano crescer del pari, sicché ne risulti all’uomo, generalmente intollerante, un salutarissimo esempio di tolleranza; e di fatto cresce in lui sempre l’una in proporzione degli altri cosí, che quasi del suo soffrire l’occhio altrui non s’avvede»), ma a quelle in cui l’intelligenza e simpatia femminile collaborano proprio nel senso di una tenerezza e di una puntualità ben inscritte nel cerchio del bello morale e del bello ideale teso da un’esperienza settecentesca di salotto e di letteratura che può risalire a quel civilissimo côté veneto di secondo Settecento, in cui si formò il Foscolo. Gli stessi termini di passione, cuore, immaginazione, riflessione precisano il tipo di saggezza di costume e di letteratura cui la Teotochi, naturalmente e per il peso di un ambiente letterario estremamente formato, tendeva: «Amico de’ piaceri, e piú di quelli, che non inebriano il cuore e la immaginazione, compiange, ma non partecipa i deliri e le pene, che producono le grandi passioni e supplisce per se stesso con la molteplicità alla intensità de’ piaceri». Un’aria di epicureismo sottile che si giustificava come amore della perfezione e della forma, una tensione intellettuale e sensibile che tocca una scrittura aderentissima oltre la efficacia ritrattistica («osserva quegli avidi sguardi, e sto per dire voraci, e quelle narici aperte, e quelle labbra, che si toccano appena, indizio della interna smania di veder tutto») alleggeriscono questi ritratti neoclassici oltre la floridezza canoviana, oltre l’assestata epicità dell’Appiani, e, come sentono la vicinanza di Foscolo e Alfieri, non ignorano la lezione delle paginette preromantiche del Viaggio sul Reno, delle Prose campestri o delle favole dell’Osservatore. È nella storia della nostra prosa del primo Ottocento oltre che nella storia del costume letterario che questo tenue libretto suggerisce nei suoi limiti artistici un passaggio che non può vedersi solo nei testi dei grandi scrittori: neoclassismo rivolto ad utilizzare la ricchezza del secondo Settecento.


1 I. Teotochi Albrizzi, Ritratti e vita di Vittoria Colonna, a cura di T. Bozza, Roma, Tumminelli, 1946.